Dulcinea

«In questi giorni di Natale, che ho trascorso in Sicilia, purtroppo sono stata solo poche ore con i miei, anziani, perché mio marito si è ammalato di un’infezione grave e avevo paura di trasmettere il contagio.

Per vincere questo dispiacere (non vedo i miei genitori se non a Natale e in estate)…cercavo un senso…

Il mio albergo era attaccato alla Parrocchia di Maria Ausiliatrice, dove i salesiani da quando ero piccola hanno un bellissimo oratorio… C’era un bellissimo presepe a grandezza naturale. Personaggi che sono manufatti di maestranze locali, di grande realismo e umanità.

Guardavo. Nel mistero di Gesù Bambino, più della dolcezza della visione infantile, mi ha sempre colpito la realtà di un mistero pasquale che già cominciava nella culla, prima del compimento della vita di un uomo che sarebbe stato il Salvatore del Mondo…E negli occhi di Maria, in quello sguardo che già più che incanto emanava la contemplazione dinanzi al mistero di quel Bambino, ho trovato la gratitudine di avere una Madre in Lei. Poi una frase, da un opuscolo sul banco…“Lei è la porta che apre a Dio la libertà di farsi umano; a noi finalmente di essere, salvi dal quotidiano morire”. In queste parole di P. David Turoldo a modo mio mi sono sentita meglio.

Sarà ancora un anno dove ciascuno di noi avrà ogni giorno la sua parte di tribolazioni…ma forse saremo salvi dal quotidiano morire finché incontreremo gli occhi di quella Madre»

Inviato da:  Alessandra

 


“Sì, perché è ormai chiaro, che l’anima dell’uomo fedele, che è la più degna fra tutte le creature, è resa dalla grazia di Dio, più grande del cielo. Mentre i cieli, infatti, con tutte le altre cose create non possono contenere il Creatore, l’anima fedele invece, ed essa sola, è sua dimora e soggiorno. …

Allo stesso modo dunque, in cui la gloriosa Vergine delle vergini portò Cristo materialmente nel suo grembo, tu pure, seguendo le sue vestigia specialmente dell’umiltà e povertà di Lui, puoi sempre, senza alcun dubbio, portarlo spiritualmente nel corpo casto e verginale. E conterrai in te Colui dal quale tu e tutte le creature sono contenute”

dalla Terza Lettera di Chiara d’Assisi ad Agnese di Boemia (FF 2890-2893)

Sembrerebbe questo un miracolo per il quale come minimo occorrerebbe lo stesso “status” di trasparenza di Maria, cui Chiara d’Assisi guarda costantemente. Noi non siamo puri per natura come Maria, eppure ogni istante l’Amore con cui Gesù ci ha amati, scelto come opzione fondamentale del nostro esistere, un amore che è Nulla-di-noi, genera in noi – per sola grazia – il miracolo della trasparenza.

Se più ci fidassimo di questa “santa operazione” (come Francesco d’Assisi indicava l’Amore di Dio che opera in noi) forse saremmo più liberi e come bambini, potremmo contemplare cose sconosciute alla più rigida ascesi umana.


SETE DI VENTO

Competizioni internazionali del calibro dell’America’s Cup, ma non solo, hanno reso negli ultimi anni popolare in tutto il mondo lo sport della vela. Ma al di là dei grandi spettacoli che attirano l’attenzione dei media, c’è il semplice uomo di mare, per il quale l’esperienza della vela non è fatta di match race, di tattici, di linee di partenza, ma di fatica pura, di sale, di vento da rubare… Un’esperienza che diventa lezione di vita. Li ho conosciuti questi uomini, per i quali andare in barca non è solo un modo per tuffarsi nella natura, ma soprattutto un mezzo per conoscere se stessi, i propri orizzonti, i propri limiti.

L’operazione di chi si misura con il mare e il vento, avendo a disposizione un piccolo scafo e una vela… è paradigmatica: è l’impresa dell’intelletto umano a contatto con il mistero della natura e dell’esistenza.

Chi va per mare a vela sa che – strano a dirsi – con vento forte, occorre rendere le vele “magre”. Più il vento è forte, e più bisogna appiattire la vela. Al contrario, con vento leggero, bisogna aumentare la convessità (“ingrassare le vele”), per rendere le vele più portanti.

Ma nella navigazione oltre al vento e alle vele, ci sono altre due componenti importanti che intervengono nella rotta, cioè nella traiettoria che si vuol dare alla barca. Esse sono la deriva e lo scarroccio. La prima è un angolo formato dall’asse longitudinale del natante rispetto alla sua stessa scia sull’acqua, cioè alla direzione effettivamente seguita rispetto al fondo del mare, ed è dovuta dalla componente trasversale della pressione delle correnti marine sulla parte immersa dello scafo

Lo scarroccio invece è l’angolo tra la direzione della prua e la reale direzione del moto della barca, ed è dovuto alla componente laterale della spinta del vento sulla murata. Quindi quando si calcola una rotta in barca a vela, bisogna sempre prevedere queste due variabili, che incidono non poco sulla rotta da intraprendere. Anzi prerogativa del buon marinaio è la facoltà di apprezzare la deriva e scarroccio.. Egli, attraverso il timone, imprime impercettibili correzioni sulla rotta, che ha sempre presente sulla bussola.

Così  nella vita: lo diciamo pure: “Va tutto a gonfie vele”… senza accorgerci però che non basta. Forse non teniamo conto che stiamo “scarrocciando”, che cioè lentamente, la direzione della nostra deriva sta divergendo sempre più dalla rotta. Ci stiamo discostando dalla traiettoria dei punti nave. Ciascuno di noi ha dei “punti nave” interiori che dovrebbero in certo qual senso essere assoluti, se vogliamo arrivare a destinazione. Ma ecco che tutto va bene: salute, affari, affetti. Non ci accontentiamo e – in gergo – “diamo grasso alle vele”: concediamo sempre più alla nostra cupidigia, alla nostra vanità, al nostro ego. Stiamo sbandando troppo e non facciamo nulla per contrastare questo sbilanciamento. Dentro di noi la nostra coscienza ci richiama alla misura, al rispetto di cose e persone che ci circondano, ai “punti nave” insomma. Ma è difficile ascoltare quel richiamo. È difficile “correggere quella traiettoria”

 

Tutti ci osannano, risultiamo sempre simpatici e vincenti in ogni occasione. “Molliamo la scotta” ancora di più…lasciamo che il vento favorevole predomini completamente sul governo della nostra esistenza. Che sensazione… ci sembra di filare bene… ma se dessimo uno sguardo agli strumenti ci accorgeremmo che perdiamo velocità e siamo alla deriva… sempre più…divergiamo  sempre più dalla rotta. Se solo fossimo un po’ attenti, ci accorgeremmo dei primi segni di questo declino: i consensi cominciano a diminuire, si defilano le amicizie cui più teniamo e restano attorno a noi solo gli opportunisti. Ma ormai l’ingordigia è diventata abitudine: più velocità, più emozioni: diamo ancora mano alla scotta, per farci portare al massimo dal vento! La barca è al massimo dell’inclinazione.

E’ un attimo poi: un groppo di vento più violento ed ecco la scuffiata: le sorti della nostra esistenza si capovolgono e lo sbandamento sconfina all’improvviso con l’irreparabile. Ci siamo rovesciati in acqua.

Cosa ha fatto sì che questo accadesse? La bramosia, la sete di potere, l’ingordigia umana. Origine di ogni male, origine della tentazione eterna di ogni uomo che una volta nella vita sente la sibilante seduzione di “Ecco tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”.(Mt. 4, 9)

La sete di grandi cose, di primati, di conquiste, è tra le aspirazioni più nobili dell’uomo. Ma non va confusa con la bramosia, con l’egoistica ricerca di sé, con l’avidità fine a se stessa. Nei grandi conquistatori della storia, negli sportivi che si spingono fino a limiti impossibili, nelle grandi sfide dell’intelletto umano colgo sempre il limite che prima o poi porta alla distruzione. Come la biga alata del mito, la nostra aspirazione di cose grandi è guidata da due cavalli: uno bianco e uno nero. Il cavallo bianco rappresenta quanto di più nobile è in noi, quello nero è la parte più concupiscibile, quella soggetta agli istinti più bassi. E come per la biga alata è l’auriga, così per l’imbarcazione della nostra esistenza, siamo noi i timonieri, coloro che attraverso il senso della misura, attraverso continue correzioni della rotta, imprimiamo un senso alla nostra vita.

Non posso non pensare a Francesco d’Assisi. Una naturale impetuosità contraddistingue la sua ricerca. E pure dopo la conversione, Francesco non ha spento la sua naturale passionalità, il suo entusiasmo, li ha solo “corretti”.  Ma paradossalmente nell’imporsi tutte le misure correttive dell’ego, che hanno reso famosa la sua via di penitenza, ha trasmesso una visione di umanità riconciliata, felice, totalmente realizzata.

Parole come correzione, controllo, misura, restano impopolari nella nostra cultura. Forse perché risultano incrostate di letteratura, di oscurantismo e di repressione

Eppure nella misura trovo il fondamento dell’armonia, dell’integrazione nel mistero della vita, fatta di esaltazioni ma anche di frustrazioni, fatta di vette, ma anche di abissi…

Da grande navigatore dell’animo umano, Francesco indica un magnifico albero maestro sul quale distendere la vela della propria esistenza: la croce di Cristo. Inferita in esso, si gonfierebbe lieve ai venti della vita… Scirocco, tramontana, ostro, grecale: l’albero della croce è lì, per non lasciare che la sete di vento ci prenda troppo la mano.

E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni». Lc 12,13-21

No votes yet.
Please wait...