Dare ragione della nostra speranza

La speranza

Gli annunciatori, gli apostoli sonogli uomini e le donne della speranza.

Al contrario del proverbio che dice: “Finché c’è vita c’è speranza”, l’apostolo sa che “Finché c’è speranza c’è vita”. La speranza è ciò che tiene in piedi la vita, la custodisce, la protegge, la incoraggia, la sostiene.

San Pietro nella sua lettera ci porta a leggere il kerigma dal suo punto di vista: come una risposta ad una domanda proprio su questa speranza:

“E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,13-15)

La Lettera di Pietro parla della chiesa come di una casa e, al tempo stesso, come paroikia, il termine che è all’origine della parola parrocchia. La paroikia è ciò che è intorno alla casa, la terra estranea. I cristiani vivono nel mondo come “stranieri” nella “parrocchia”, terra di passaggio. In questo luogo di passaggio, straniero, i cristiani incontrano difficoltà ed ostilità ed è in riferimento a queste che Pietro li incoraggia e indica proprio questa paroikia come il luogo dove vive la chiesa e che rende chiesa. In questo luogo talvolta ostile e freddo il cristiano vive con una speranza nel cuore che è alimentata dall’adorazione interiore a Cristo.

La speranza riguarda il futuro, il cristiano guarda il futuro alla luce dell’adorazione di Cristo nel suo cuore. Per questo è capace di giustificare, di rendere credibile e ragionevole la speranza che lo anima. Invece di guardare il mondo e di lasciarsi spaventare dalle minacce del mondo, L’apostolo ritorna dentro al suo intimo dove c’è la presenza del Signore nella fede, e lì si sottomette con gioia e con fiducia a Lui.

Ciò lo si potrebbe tradurre così: “Se state in un atteggiamento di adorazione nei confronti di Cristo non vi deve fare paura niente, ma dovete, potete, custodire la Speranza sempre, perché questa presenza di Cristo nei vostri cuori non ve la porta via nessuno. Le cose sterili possono anche essere portate via, e sono motivo evidentemente di sofferenza. Ma la presenza di Cristo nel vostro cuore, no! Custoditela con la vostra adorazione e con la vostra fede, fidatevi”.

San Paolo chiede all’apostolo di sapere spiegare perché custodisce sempre una fiducia incrollabile nella vita e perché il suo cuore è aperto al futuro nella speranza. Deve spiegare: come mai questo gli sia possibile anche nella sofferenza e lo deve spiegare con una “parola ragionevole”.

Questa è l’immagine dell’apostolo che annuncia una buona notizia all’uomo di oggi, egli vive come se la vedesse già realizzata, come si stesse realizzando e la indica, la esprime, ma non ha alcuna certezza se non quella interiore basata sulla fede.

La fede

La missione dell’apostolo è infatti un mistero, cioè partecipazione dell’uomo all’opera di Dio, sottomissione allo Spirito che soffia dove vuole (Gv 3,8) e quindi un mistero che ci porta lontano dalle nostra vedute, un cammino su cammini che non sono nostri: “Le mie vie non sono le vostre vie” (Is 55,8). Si avanza dal conosciuto allo sconosciuto e di sconosciuto in sconosciuto, una strana alchimia nella quale la salvezza sorge dall’esilio; le certezze nascono dalla prova, la luce dall’oscurità. E il cammino di quarant’anni degli ebrei nel deserto contiene in germe e racconta la storia dell’umanità in cammino verso Dio, le sue fatiche, le sue incredulità. Per questo la storia stessa di Mosé è quella di ogni apostolo. Questa storia di Mosé, La Lettera agli Ebrei la riassume in una frase straordinaria: “per fede, egli lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; infatti rimase saldo, come se vedesse l’invisibile” (Eb 11,27)

L’apostolo è dunque l’uomo della fede: egli non vede chiaro, non sa con certezza, egli crede. Tutto il suo essere è impegnato in una fiducia assoluta in Dio che non può né sbagliarsi né illuderci. Il Cristo gli ha donato la sua parola, e lui si è messo sulla via di questa parola del verbo fatto carne: “Io so in chi ho creduto” (2 Tm 1,12). Quando si dice che l’apostolo è l’uomo della Parola non è semplicemente perché egli parla per annunciare il suo messaggio. È prima di tutto perché egli ha messo la sua via sulla parola di Dio.

Egli non vede, ma resta saldo come se vedesse.

San Paolo si esprime così: “Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù… (2 Cor 4,13).

Qui san Paolo si riferisce al Salmo 116,10: “Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice” e quindi all’esperienza di aver attraversato l’incertezza e il dolore.

L’apostolo talvolta cammina nel buio, ma attende con fiducia, resta saldo. Nel libro di Isaia troviamo queste misteriose parole: “Oracolo su Duma. Mi gridano da Seir: «Sentinella, quanto resta della notte?». La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!»” (Is 21,11).

Questo oracolo di Isaia viene definito uno dei più enigmatici dell’Antico Testamento. Una possibile lettura tiene conto che Duma vuol dire anche “silenzio notturno”, per cui possiamo pensare che si parli anche di una notte esistenziale in cui l’uomo è immerso, una notte che non lascia segni dell’arrivo del mattino. Più di tutti è immersa in questa notte la sentinella a cui gli altri si rivolgono per chiedere quando essa finirà. Questa però non ha risposte precise, sa solo che dopo il mattino viene la notte, ma quando cederà il passo di nuovo al mattino egli non lo sa e rivolge all’interlocutore solo un invito a perseverare nel tornare ancora a chiedere più tardi e a convertirsi in questo tempo di attesa.

L’immagine di questa sentinella è un’altra immagine che descrive l’apostolo. Il suo compito, come dice il Vangelo, è quello di tenere viva l’attesa, “con la lampada accesa” dell’amore e della fede. Come la sentinella dell’oracolo del profeta non ha risposte molto esaurienti per coloro che si rivolgono a lui, ciò nonostante li incoraggia a perseverare, a tornare a Dio e a cambiare il proprio modo di essere.

È difficile incoraggiare gli altri quando si può essere immersi in una notte interiore, magari senza che ce ne si renda conto.

  1. Mario Borzaga il giorno del suo 26° compleanno così scriveva: «Addio segni di gloria, della mia gloria intima e ignota a tutti: è incominciato il paradosso della mia miseria, che accetto e guardo ora con scetticismo, ora con fede. (…). Quanti anni ancora di cammino? Quanti ancora 27 agosto? Oh, sentinella quanto resta ancora di notte? Gesù mio ti amo!» (27.08.1958).

L’apostolo è come un radar per gli altri, scandaglia nel buio fino a che non tocca in qualche modo la grazia e ne rivela la presenza, non per evitarla ma per andargli incontro.

L’apostolo è povero, e proprio di questa povertà egli rende ricco il mondo: povertà di mezzi per sperimentare l’essenzialità della vita, la profondità e il tempo per la relazioni umane, per l’ascolto.

L’anima dell’apostolato è in questa frase della prima Lettera di Giovanni: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del verbo della vita (…), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché siate in comunione con noi” (1 Gv 1,1-3).

Questa è anche l’esperienza di Paolo: “Quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti (Gal 1,15).

In questa frase compaiono tre elementi: La chiamata, il contatto, l’invio

Gli stessi elementi che troviamo nella chiamata dei discepoli a diventare apostoli: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-15).

L’invio è il frutto dei primi due elementi e quindi avrà in sé il contenuto di essi: l’esperienza della nostra chiamata, l’esperienza del nostro contatto con Cristo.

Ognuno di noi ha dunque un suo vangelo da annunciare e il Kerigma è il contenitore di questo messaggio, uguale per tutti ma ripieno di un contenuto che ha un sapore e una caratteristica propria dell’esperienza dell’apostolo.

 Salvatore Franco omi

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