La parola “consultorio” ci fa immaginare qualcuno che va consultare un altro, come gli antichi che andavano a consultare un oracolo. Consultare è domandare consiglio ad una persona autorevole. La persona autorevole, per poter deliberare il proprio consiglio deve prima ascoltare la domanda. Quindi il consultorio ci fa pensare molto ad un luogo anzitutto di ascolto. L’ascolto della parola dell’utente e del paziente che viene a chiedere aiuto, spesso una parola di dolore, di dubbio, un racconto di una storia difficile, un sintomo.
Quale tempo migliore di questo, nel quale ci prepariamo al Natale, per affinarci nell’ascolto della parola di chi varca la soglia del consultorio? Il Natale infatti è la celebrazione della Parola che si fa carne, che si avvicina a noi per farsi sentire e si presenta a noi attraverso un bambino e una famiglia.
Il Natale è una grazia perché, come scriveva san Leone Magno, “quel giorno non è passato in modo tale che sia anche passata la potenza dell’opera che allora fu rivelata” (Sermone sull’Epifania 36,1); “siamo sotto l’effetto del dinamismo di tali azioni presenti” (Sermone 52,1).
Come metterci in ascolto di questa Parola vivente e attuale? Un passo del primo prefazio dell’Avvento così dice: Al suo primo avvento nell’umiltà della nostra natura umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza
Vorrei sotto lineare questo “nella umiltà della nostra natura umana”: la via seguita da Cristo è stata quella di “entrare” nella umiltà della condizione umana e raggiungerci attraverso di essa. Quando S. Giovanni, nel prologo, scrive che il Verbo si è fatto carne, specifica cosa dobbiamo intendere per questa umiltà della nostra umanità. Qui egli non parla nemmeno di corpo, ma di carne, la sarx. Non so se nelle opere filosofiche del tempo c’era qualcuno che avesse messo in evidenza questo termine. D’altronde i primi cristiani erano soliti scegliere dei termini presi dal linguaggio comune e che non avevano molta importanza, banali, e dare a questi significati immensi. Prendiamo per es. il termine agape, l’ultimo degli amori che diventa il primo! La sarx è ciò che è destinato alla morte, alla decomposizione da cui la parola sarcofago. Eppure per il vangelo di Giovanni esprime ciò che è alle fondamenta del corpo, il principio materiale del corpo, in definitiva il linguaggio e l’organizzazione del corpo, la parte fragile, sensibile e dolente del corpo, ma anche il luogo della comunione e del piacere. Con il termine carne (sarx) Giovanni indica quindi la parte sensibile dell’essere umano, la più fragile e delicata, quella che risente di ogni cosa e che, proprio per questo, può lasciarsi facilmente condizionare dal peccato. Egli ci dice, in questo modo, che il Figlio di Dio ha scelto di amare e sposare proprio questa debolezza, e così di fare di se stesso questa debolezza e questa sensibilità e di fare di questa debolezza una via per incontrarlo e accedere alla realtà di Dio che egli chiama “Regno dei cieli”.
Il prologo di Giovanni descrive il Figlio Gesù prima e dopo questo evento della incarnazione. Prima egli è “la Parola”, e precisamente il Logos e quindi il senso, il significato, la logica e cioè relazione tra parti alla ricerca di un senso. Questo significato che è all’inizio, all’origine prima di ogni cosa, è una persona e precisamente un Figlio che si rivolge verso il Padre per ricevere da Lui questo senso di sé e il senso di ogni cosa. Il senso è vita, luce, identità.
La parola che è il Figlio di Dio è dunque molto più che una frase detta con la bocca, ma è il risultato, l’insieme, l’integrazione risultante di tutto ciò che è in quanto persona nella sua relazione con il Padre. La Parola è tutta solo in questo senso, non nella lettera, ma nella globalità del contenuto. In questo contenuto, con il mistero dell’incarnazione, è entrato a far parte, in modo pieno, la corporeità e la carne.
Questo Logos, questo senso del tutto, dice infatti il prologo di Giovanni, si è fatto carne per venire a prendere dimora tra noi, nelle nostre relazioni, nella nostra vita quotidiana, tra le nostre case. Ciò vuol dire quindi che non possiamo più cercare il senso, l’identità di qualcuno, tanto meno di Cristo, al di fuori di questa carne.
La carne è ciò che della persona sporge verso l’esterno, essa è l’espressione di una totalità che sta più a fondo. Per questo, quando ascoltiamo qualcuno, occorre ricordare che stiamo ascoltando la persona nella sua totalità. Giovanni Paolo II parlava, per questo, della persona come “totalità unificata”. Per accostarsi alla persona e ascoltarla occorre quindi tener presente che non si ha di fronte semplicemente un corpo o una mente sofferente, ma un essere umano nella totalità di tutte le dimensioni che lo caratterizzano: corporea (e quindi cognitiva, relazionale, emotiva, affettiva) e spirituale (e quindi religiosa, valoriale, trascendente).
Questa complessità costituisce la nostra identità, chi siamo nella nostra totalità. Il Verbo, il Senso, che si fa carne, ci dice poi che l’identità della persona sta già nel suo concepimento. Noi crediamo che quando siamo concepiti, in quell’istante Dio infonde in noi lo spirito, come fece con Adamo. È il concepimento il luogo della creazione dell’anima, l’identità più profonda della persona: un luogo fatto di carne, di sensibilità, di emozioni e sentimenti, un luogo che si realizza nell’incontro di due persone, di due corpi e di due sessi, di due spiriti, di due storie familiari.
In ogni embrione si concentrano mondi e percorsi umani che vengono da lontano, da una storia, carichi di bene ma anche di male, di ferite e di errori. Durante tutta la vita il corpo umano continuerà a registrare gli eventi che accadono diventando come un libro in cui viene scritta e narrata la storia di ciascuno a cominciare dal proprio nome.
L’immagine biblica del libro è un rotolo che si svolge e che si legge, simbolo di un mistero che si apre man mano che si va avanti. Ogni libro ha un titolo, ogni storia ha un titolo che la riassume. La persona ci parla e intanto si svolge il rotolo del suo libro. Ci racconta dei fatti, delle sensazioni, dei dolori, di qualcosa che gli capita e che non comprende, non riesce ad interpretare, perché interpretarsi è una necessità umana, è ricongiungersi con il senso di sé, con ciò che si è stati e si è. È infatti alla ricerca di quel titolo che dà senso alla sua storia.
La psicologia spesso cerca di decifrare questo racconto, questa parola che la mente e la carne dell’altro esprimono spesso in modo inconsapevole al cuore di chi ascolta. Cos’è dunque un sintomo se non questo messaggio, questa parola nella quale riecheggia un dolore, un vuoto, una mancanza, un errore compiuto, un colpo subito, una contraddizione? Che cos’è un sintomo se non il tentativo di rispondere, al tempo stesso, a quella parola che si è inscritta nella propria carne?
La psicologia ascolta la parola di questa carne nella quale si struttura la mente, si inscrivono e si sentono le emozioni, i sentimenti, i desideri, le attese, i vuoti, le ferite, per giungere pian piano ad una parola centrale, un tema della vita di quella persona, un titolo approssimativo che spieghi i tentativi messi in atto o non messi in atto per rispondere a quella parola, per spiegarla, per affrontarla e risolverla o ignorarla.
Anche per Gesù il luogo del suo concepimento è un luogo corporeo e personale, fatto di carne e di spirito. Il Vangelo di Luca fotografa questo evento nel giorno dell’Annunciazione, lo fotografa dall’esterno, dalla prospettiva di Maria durante il dialogo avuto da lei con l’angelo. C’è però anche un passaggio tra i più intensi del Nuovo Testamento che fotografa questo momento del concepimento dalla prospettiva del Figlio di Dio: «Entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato (…). Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro …» (Eb 10,5-7).
Questo corpo di cui qui si parla è anzitutto quello di Maria, la Madre di Gesù, il grembo fatto di carne e di amore nel quale egli sarebbe stato concepito per opera dello Spirito santo. È in questo corpo e dunque in relazione con la madre che egli si fa carne. È in questa relazione fatta di affetti, emozioni e sensazioni, di cellule, di processi fisiologici e di contatti che emerge il suo Sé, si origina la sua identità. E questo allo scopo di abitare in mezzo agli esseri umani, di essere una persona umana accanto a persone umane.
Appena concepito, così come quando appena nato, il Figlio di Dio fa però l’esperienza della fragilità di questa carne di cui egli è fatto e di cui sono fatti gli altri. Sempre la Lettera agli Ebrei, in un altro passaggio, ci mostra la drammaticità di questo impatto di con la fragilità umana di cui Egli si è rivestito: «Nei giorni della sua vita terrena (letteralmente “nei giorni della sua carne”) egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio…» (Eb 5,7).
Il vangelo di Giovanni ci mostra spesso Gesù nel suo impatto con la fragilità della carne altrui, soprattutto quella più sottile, più profonda, quella dei meccanismi, talvolta contorti e ambigui, della psiche condizionata dal peccato: «molti vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 223-25).
Al tempo stesso Gesù si fa carico di questa fragilità umana e la porta dentro di sé. Per questo, come ha imparato dalla madre, le sue viscere si muovono a compassione per la miseria e povertà umana e per i bisogni più profondi dell’essere umano, come una madre che soffre nel vedere il suo figlio ammalato: «vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34)
Tutta la sua vita fu questo entrare nella realtà umana e caricarsi del dolore e della debolezza che in essa è cpntenuta, fino alla fine, quando lavò i piedi ai suoi discepoli, anche a colui che lo avrebbe tradito, e fece di questo gesto il simbolo vivente dell’amore che ha inaugurato, fatto di cura, perdono, guarigione, un amore che non parte dalle qualità dell’altro, ma sempre dal basso, dalla carne, dalla parte debole dell’altro, da ciò che è più repellente, indegno, meno meritevole di amore.
Gesù ci mostra cos’è la spiritualità e come si differenzia dalla psicologia: la spiritualità cristiana è la conseguenza e la risposta a questa Parola che si fa carne nella nostra carne e in quella altrui, così come si è fatta carne in Gesù dal concepimento alla morte in croce, e che ritroviamo nell’Eucarestia, la parola diventata pane d’amore per tutti.
La parola che è il Cristo è il senso che egli dà alla nostra parola, è la sua interpretazione, la sua risposta e questa risposta fa riecheggiare in noi la nostra risposta, che è gratitudine, eucaristia, risposta d’amore, nuovo senso di noi. Il Prologo del Vangelo di Giovanni parla di questa risposta come il frutto di un’accoglienza che diventa rigenerazione, nuovo concepimento: un passaggio, una trasformazione che va dal concepimento nella carne al concepimento nello Spirito, un nuovo titolo dunque da dare al nostro viaggio, al libro della nostra vita: «A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13)
La Parola che si fa carne indica un movimento di discesa e di generazione di sé, di crescita verso il basso, in senso opposto a quelli che sono gli istinti primordiali di sopravvivenza e di realizzazione autonoma ed egocentrica di sé, immessi in noi dal dolore, dalle paure e dal peccato. Tutta la vita spirituale è intesa come un continuare il percorso iniziato dalla Parola che si fa carne, uno scendere con essa più giù nel cuore dell’essere umano che la Bibbia paragona ad un abisso.
La vita spirituale è un grande e nuovo concepimento attraverso il “farsi carne”, entrare fino in fondo cioè nella realtà del mondo e della persona umana e lì scoprire l’intervento della Grazia, quel qualcosa di inatteso, spesso nascosto in eventi assurdi e indecifrabili, che ci sorprende ma anche ci dona a una nuova vita, a un nuovo modo di vedere e di essere.
Questa spiritualità parte dunque da dove Gesù ci ha raggiunti, come in una staffetta, dal basso, dalla carne, per ascoltare la parola della carne dell’essere umano e in questo ascolto affina l’orecchio e il cuore per percepire l’eco della Parola che è il Signore e che venuta da altrove, porta altrove. Mentre infatti il Logos, il Verbo, si è fatto sarx, umiltà nella carne umana, per noi il cammino è fare dell’umiltà e debolezza della carne una parola, una risposta a quell’altra Parola che è venuta ad abitare tra noi, nelle nostre relazioni e dentro di noi. Ognuno di noi è chiamato a diventare una parola nella Parola che è Cristo. Il nostro corpo, la nostra carne, la nostra condizione umana nella sua debolezza, è dunque la terra dove fiorisce la parola di Dio e il nostro vero essere.
Papa Francesco così scrive nella “Gaudete et exultate”: «Voglia il cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita. Lasciati trasformare, lasciati rinnovare dallo Spirito, affinché ciò sia possibile, e così la tua preziosa missione non andrà perduta» (n. 24)
Per questo occorre addentrarsi in questa “carne” per conoscerne le sue leggi e il suo mistero e per trovarvi i punti di incontro con il mondo della Grazia, dove inizia e si realizza l’opera di trasformazione che ci guarisce e ci trasforma. La carne è infatti la via del cristiano, la via a cui Gesù ha dato una direzione: un inizio e una fine, come bene esprime la Lettera agli Ebrei: «Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne (…) accostiamoci con cuore sincero…» (10,19-22)
Nel riprendere l’adagio di Tertulliano: “caro cardo salutis” (De carnis resurrectione, 8,3), così scriveva don Tonino Bello: «La carne, il corpo, la visibilità, sono il cardine attorno a cui si articola la salvezza, anzi sono la ferita attraverso cui l’opera salvifica di Dio entra nelle arterie della storia» (Bello T. Cirenei della gioia. Milano 1995, San Paolo, p. 84)
Non c’è mai un ascolto della Parola, che è Gesù, fuori dal contesto umano della carne, fuori dalla storia, fuori dal mondo, fuori da una relazione. La Parola è sempre fatta carne, anche quando l’ascoltiamo durante la Liturgia o la leggiamo per conto nostro. Essa è sempre qualcosa, o meglio Qualcuno, che incontra la nostra carne e tocca il nostro cuore, è sempre un piccolo seme che va a nascondersi nelle profondità dell’essere umano, nelle parti più intime e doloranti di noi.
Possiamo e dobbiamo distinguere la psicologia dalla spiritualità, ma possiamo anche metterle in atto entrambe: ascoltare la carne che si fa parola, e in quella carne la Parola che è Gesù, il senso di ogni cosa, che si fa carne nella carne di chi ascoltiamo. Così come facilitiamo dunque il processo dell’espressione di quel dolore, di quel venire alla luce di quel dolore umano, per poterlo curare e guarire, così possiamo facilitare, accompagnare, l’espressione della Parola che Cristo dice a quella persona: ciò che è chiamata a diventare, proprio attraverso quella sua parola che esprime il proprio dolore vissuto nei “giorni della carne”, nelle profondità della sua debolezza.
Talvolta il dolore, le abitudini e i meccanismi psichici e le strutture di personalità bloccano l’accesso a questa Parola che vuole farsi carne. Per questo l’intervento di ascolto e di aiuto da compiere possiamo interpretarlo alla luce della missione di Giovanni il Battista: essere “una voce”, che invita la persona ad entrare nel suo dolore, come in un deserto, dove ascoltare un ‘altra Voce: quella di Cristo. È questo dunque un aprire la strada, rendere piane le montagne che si frappongono, e piane le valli divenute abissi insondabili, individuare e riempire i vuoti che non permettono di intraprendere il cammino.
L’intervento psicologico, medico, di ascolto, di un qualsiasi operatore del consultorio occorre quindi considerarlo come il primo passo verso un cammino più ampio della persona. Un primo passo per riprendere forza, una sosta per, riaccostarsi a sé stessi, al proprio corpo, non però per rimanervi fissi, ma per rimettersi in ascolto di un’altra Parola, quella che realizza in noi ciò che siamo agli occhi di Dio.
Ci sono delle frasi della Bibbia e particolarmente del Vangelo che hanno un grande contenuto psicologico e che possono essere strumenti efficaci di guarigione interiore. Ne cito solo alcune:
- Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? (Lc 6, 39-45)
- La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! (Mt 6,22-23)
- Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso? (Luca 9, 25)
- Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: «Vuoi guarire?» (Gv 5,6)
Vorrei leggere un testo di Danielou che mi sembra esprimere bene di questo ascolto:
«Vi è in noi una certa radice che s’immerge nella profondità della Trinità. Siamo quegli esseri complessi che vivono a livelli successivi, ad un livello animale e biologico, ad un livello intellettuale e umano, e ad un livello ultimo che si situa in quegli abissi che sono la vita di Dio e la Trinità. Per questo abbiamo il diritto di dire che il cristianesimo è un umanesimo integrale e cioè sviluppa l’uomo a tutti i livelli della sua esperienza. Dobbiamo diffidare sempre di ogni tentativo di ridurre lo spazio in cui si muove la nostra esistenza. Noi respiriamo a fondo solo nella misura in cui non ci lasciamo rinchiudere nella prigione del mondo razionale e psicologico, ma dove una parte di noi sfocia in quei grandi spazi che sono quelli della Trinità. Ciò che fa sì che vi sia una gioia di vivere nel cristianesimo che è incommensurabile» (Danielou J. Mythes païens, mystère chrétien, Fayard, 1966, p. 103).
In una relazione del dr. Pasquale Raffa ho letto questa importante impostazione dei fini del consultorio che dà luce a quanto detto fino ad ora: Contribuire all’opera di ripresentazione dei valori umani e cristiani della famiglia, della loro riscoperta e della loro cosciente traduzione con coerenza nelle scelte negli stili di vita. L’obiettivo fondamentale dell’impegno è stato individuato nella promozione di una cultura della vita che non è solo la difesa attraverso i servizi di consulenza centrati sulla persona, ma va sostenuto attraverso iniziative e interventi sul piano educativo e culturale e su quello della diffusione delle conoscenze scientifiche e morali adatte ad aiutare i giovani e le famiglie a progettare e a compiere azioni consapevoli tese a costruire relazioni umane significative stabili, basate sul rispetto della dignità della persona e sull’amore reciproco.
Se pur dobbiamo rispettare in modo rigoroso il setting professionale scientifico, razionale, nessuno ci vieta di farlo in maniera totale. Se ascoltiamo infatti non solo la carne che si fa parola, ma anche la Parola che si fa carne, allora non sarà difficile aprire il dialogo e la porta a nuovi percorsi che conducono più in alto, o meglio, più in basso nelle profondità di Cristo.
Una delle immagini più belle del Vangelo che descrivono questo modo di essere e di lavorare è quella di Gesù quando lo troviamo seduto al pozzo di Sicar, accanto alla samaritana. Lì, pian piano, mentre parla con lei dell’acqua che è faticoso procurarsi, della sete che non si sazia mai nel cuore dell’uomo, il discorso cade su Dio, ma anche sulla relazione di coppia, sul matrimonio e su scelte coraggiose da compiere per guarire il mondo affettivo. Allora la donna, che è si è sentita così ascoltata, riconosciuta, capita, letta, corre alla propria casa e va tanto di fretta che dimentica l’anfora che ormai non le serve più, visto che ha trovato un’altra acqua di cui dissetarsi.
Lavorare in équipe potrà facilitare questo compito, proponendo il colloquio con il sacerdote o con qualcuno che si dedica all’ascolto dello spirito, in modo gratuito, senza pretese di offrire chissà quali guarigioni, un esserci, un essere accanto, un condividere, e portare i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2)!
Per concludere leggiamo quanto scriveva Giuseppe Moscati in una sua lettera: «Ricordatevi che vivere è missione, è dovere, è dolore! Ognuno di noi deve avere il suo posto di combattimento… Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete occupare, ma delle anime gementi, che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio, e scendendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista! Siate in gaudio, perché molta sarà la vostra mercede; ma dovrete dare esempio a chi vi circonda della vostra elevazione a Dio» (al Dr. Cosimo Zacchino, Ascensione 1923).